Cenecineforum 2019, SGUARDI SULL’UMANO

Anche se la finestra è la stessa non tutti quelli che si affacciano vedono le stesse cose:
la veduta dipende dallo sguardo
Alda Merini

Lo sguardo è ciò di cui si è occupato il nostro Cenecineforum del 2019.
Le pellicole scelte in questa rassegna hanno stimolato numerose riflessioni che abbiamo deciso di raccogliere e condividere qui di seguito, ringraziando i partecipanti per i loro preziosi e sentiti contributi.


Il modo in cui vediamo, osserviamo, guardiamo il mondo, gli altri e noi stessi non dipende solamente dai nostri occhi e dai nostri sguardi ma anche dagli occhi che incontriamo.
Nell’incontro cosa ci rende umani? Come ci riconosciamo tali? Come interpretiamo il mondo?
A questi ed altri interrogativi proverà a rispondere la selezione di pellicole di questa settima edizione.
Le proiezioni ci accompagneranno in un viaggio lungo il quale incontreremo sguardi desiderati, miopi di fronte al bisogno, intrappolati da stereotipi e aspettative distorte, sguardi lontani, sterili e anestetizzati.
Non mancheranno però sguardi alla ricerca di una possibile felicità, capaci di accoglienza e di libertà, sguardi di fiducia e speranza di chi non ha paura di imbattersi nella dignità umana e di incontrarsi veramente.

Abbiamo aperto la rassegna con un film, “Corpo e anima” che, come ha diviso la critica, ha saputo dividere anche il nostro pubblico, almeno inizialmente.
Si tratta di una storia unica, che gioca sui contrasti ma che concede spazio alla delicatezza dove pare impossibile che possa invece trovarsi. È infatti ambientata in un contesto cruento di un macello di Budapest, che vede protagoniste due anime fragili. Lei, Maria appare paralizzata nell’anima: metodica, fredda, puntigliosa, quasi meccanica, ma anche teneramente infantile. Ogni contatto la spaventa, l’ombra è la sua dimensione.
Lui invece, paralizzato nel corpo: si avvicina a Maria delicatamente, solo dopo aver scoperto di essere accomunato a lei da un sogno. Se gli incontri e i contatti nella vita reale sono difficoltosi e rigidi, nel sogno tutto sembra scorrere in modo molto più fluido: i protagonisti sono due cervi, in un gelido e candido bosco innevato, alla ricerca di qualche foglia secca da poter condividere.
Il cambiamento si innesca: Maria sembra provare ad uscire dal suo guscio protettivo ed esporsi gradualmente e finalmente alla luce del sole, alla vita. Comincia a percepire qualcosa, sentimenti nuovi per il collega. Si confronta con il terapeuta infantile che le suggerisce di fare esperienze tattili, concrete, vista la sua paura del contatto.
Nel frattempo i protagonisti si incontrano in sogno, ogni notte, dove non può succedere nulla di male.
Maria inizia a esplorare e ad esplorarsi con l’atteggiamento di un bambino che per la prima volta scopre il mondo: scopre sensazioni che prima non pensava esistessero. Scopre il cibo ed emozioni che non è in grado di controllare e che la spaventano a tal punto da provare a controllare nel modo più estremo che conosce: annullandole, annullandosi.
La relazione dei protagonisti è fatta di silenzi e di attese, ma anche di sguardi prima penetranti e difesi poi più ammorbiditi.
Il sangue del macello che inizialmente non può che rappresentare la morte, si ricollega al sangue di Maria che nel suo tentativo di annullare il suo dolore, rinasce e sceglie la vita in una circolarità che sembra accompagnare l’intera storia. Il pubblico riscopre la rinascita di Maria e la sua scelta di vivere, la sua voglia di provare ad aprirsi allo sguardo umano altrui, lasciando aperto uno spiraglio nella sua monade.

Il secondo film del ciclo è stato “Mommy” e come promesso, è stato un film potente e che è arrivato dritto alla “pancia” del nostro pubblico. Steve è un ragazzo complesso: i suoi scoppi d’ira lo rendono pericoloso per chi gli sta vicino. Alterna momenti di profonda dolcezza a momenti di aggressività difficile da controllare. La madre, giovane e vedova, cerca di tenere testa al figlio con tutte le sue risorse, non si risparmia nulla, lo aiuta come può e lo ama totalmente. Combatte giorno per giorno con tutte le sue forze per tenere lontano dai guai Steve, con i suoi modi bruschi. Si mette in gioco in prima persona, negozia anche il rapporto con il figlio perdendo di vista il ruolo asimmetrico nel suoi confronti. L’irruenza di Steve che viene descritta sbrigativamente con qualche etichetta diagnostica, nasconde in realtà un dolore sordo, difficile da ascoltare. Solo la presenza inaspettata e delicata di Kyla riesce a porre un limite alla potenza travolgente (nel bene e nel male) di Steve. Solo Kyla con il suo eloquio incerto e balbuziente riesce a toccare il dolore del ragazzo. Si intuisce che la donna e la sua difficoltà a parlare portano con sè la voragine urlante di un lutto inconsolabile. I dolori di Steve e di Kyla sembrano parlarsi: entrano in risonanza. Senza dire nulla.
Solo uno sguardo che sa guardare il complesso e in profondità può contenere.
Il pubblico sottolinea l’importanza della comunicazione nella storia: ci sono comunicazioni senza parole, profondissime e comunicazioni fallimentari dalle conseguenze dolorose.
I tre protagonisti sono portatori di dolori profondi e diversi: condizionano il loro potersi guardare. Diane è concentrata sul fare, sulla soluzione del problema, Steve vuole gridare il suo amore per la madre e il suo dolore per la perdita del padre, il suo bisogno profondo di essere amato incondizionatamente, tutto intero, con
tutto il suo vuoto. Poter vedere Steve interamente non è semplice: il suo comportamento quasi imprevedibile non è un biglietto da visita facile da accettare.
Improvvisamente l’inquadratura si apre e il regista ci fa apprezzare la bellezza di uno sguardo aperto e complesso, il respiro si fa più profondo, ci si rilassa e ci si ritrova a desiderare quella libertà ingenua e spontanea insieme al ragazzo. Steve ci prova e ci riprova a controllarsi, mal’amore per la madre e la voglia di proteggerla mettono la coppia ancora più in difficoltà, esponendola ad un grosso obbligo di risarcimento economico.
Steve fa provare rabbia e tenerezza per la sua impotenza. Cosi Diane, si ingegna per proteggere il figlio da sè stesso, rinunciando per sempre all’idea di poterlo vedere in un futuro perfetto. Prende una decisione che non può più ritrattare. Respinge nel suo profondo tutto il suo dolore, con l’aiuto di Kyla, ma per poter affrontare le conseguenze della sua decisione, la donna deve impedirsi di provare emozioni. Non può accettare di perdere sia il figlio sia la migliore amica, così mente a sè stessa con tutta la forza che le rimane per resistere e rimanere integra.
Il finale lascia il pubblico contraddetto e la sua interpretazione sembra condizionata dal desiderio e dalla speranza dei partecipanti, dall’affetto che provano per i protagonisti della storia, dimostrando ancora una volta che
“Anche se la finestra è la stessa non tutti quelli che si affacciano vedono le stesse cose: la veduta dipende dallo sguardo “.

Siamo giunti al terzo film “Miracolo a Le Havre“, un paesino del nord della Francia che ci viene presentato come sospeso in una tempo non definito. I protagonisti sono vestiti con abiti che suggeriscono un’ambientazione di qualche decennio fa ma i problemi sono quantomai attuali. Idrissa, un ragazzino di colore, dopo essere stato rinchiuso per giorni in un container appena vede la luce scappa e inizia la sua corsa per riunirsi alla madre che vive a Londra. Marcel è un ex scrittore bohémien divenuto lustrascarpe, dall’aspetto dimesso e contemporaneamente curato, sposato con Arletty. I due anziani coniugi conducono una vita semplice in un quartiere povero di Le Havre. Arletty si ammala di un male che sembra incurabile e contemporaneamente Marcel conosce Idrissa. Senza un attimo di esitazione, decide di aiutarlo, nonostante la malattia della moglie e i controlli sempre più pressanti di un poliziotto senza scrupoli.
L’intero quartiere si attiva per nutrire e vestire il ragazzino: ciò che colpisce il nostro pubblico è l’assenza di paura che contraddistingue i personaggi che sanno immediatamente da che parte stare.
Emerge uno spaccato amaro tra la rappresentazione di un
ieri e un oggi che sembra ricordarci quanto fosse facile aiutare l’Altro, semplicemente un essere umano in difficoltà.
La narrazione è cadenzata e piacevole come se fossimo a teatro. La storia sottolinea la possibilità e l’importanza di far convivere le contraddizioni: per esempio Marcel è un uomo semplice e dall’aspetto assomiglia a un senzatetto, ma i suoi modi sono gentili e garbati, la giacca da lavoro è vecchia e sgualcita, ma ogni sera la piega ai pantaloni è d’obbligo.
La bontà degli abitanti di Le Havre mette in moto una spirale virtuosa di avvenimenti positivi fino alla guarigione miracolosa di Arletty. Il regista ci dona in modo poetico e delicato uno spaccato di umanità al quale non eravamo più abituati, e ci ricorda che in realtà possiamo sempre scegliere, anche oggi, da che parte stare di fronte agli occhi di chi ci chiede aiuto.

Con “The Lobster“, il nostro quarto film abbiamo travolto il pubblico. L’esperienza di David che vive in un mondo privo di qualsiasi sfumatura colpisce i partecipanti nel profondo.
Il regista Yorgos Lanthimos, ormai famoso per le sue sceneggiature distopiche e per il suo cinismo, ci racconta un mondo in cui gli estremi sono l’unica realtà: gli assoluti sono i protagonisti e le scelte sono sempre due, o bianco o nero, l’una esclude totalmente e irreversibilmente l’altra. David accetta senza controbattere la separazione dalla moglie e dato che nel suo mondo è vietato essere single, viene deportato in una clinica che, sotto il rigido controllo della direttrice, dovrebbe raccogliere coloro che per infiniti motivi non hanno un partner. L’obiettivo della clinica è quello di “accoppiare” i profili sulla base delle somiglianze e le simmetrie, ma contemporaneamente impedisce qualsiasi vera relazione. La spontaneità è fuorigioco, come i sentimenti. Ciò che colpisce maggiormente è proprio l’assenza di ogni sfumatura emotiva.
L’alternativa alla clinica è quella di essere trasformato in un animale. David sceglie l’ aragosta: il tempo è limitato. Per potersi guadagnare giorni in più, gli ospiti devono cacciare i “dissidenti”, cioè coloro che hanno rifiutato la clinica, la “civiltà” e che che vivono nel bosco. David accetta di giocare questa sua ultima partita, ma non può fingere di non provare sentimenti all’infinito. Si unisce ai solitari, ma anche questi hanno rigide regole inamovibili: vietato flirtare, vietate relazioni. Solo sopravvivenza e autonomia. David incontra la donna miope: nessuno al di fuori del protagonista ha un nome, gli altri si riconoscono per le caratteristiche principali. Tra loro c’è qualcosa che nessun altro pare avere: intesa e complicità. La loro relazione prosegue di nascosto, ma la leader dei solitari intuisce che c’è qualcosa tra di loro e vuole punirli: fa accecare la donna miope. I due amanti decidono di scappare e unirsi al mondo “civile” come coppia. I protagonisti però continuano a portare dentro di loro la legge cinica e terribile degli estremi: per stare insieme devono essere accomunati da una caratteristica evidente. Ora la ragazza è cieca: potrà David rimanere con lei pur vedendo? Il film si chiude con una scena enigmatica che lascia, ancora una volta, la risposta al pubblico. I simbolismi sono molteplici nel film, ma i modi di interpretarli sono vari. Ognuno può vedere nel cinismo e nell’aridità emotiva che ci trasmette questa storia surreale una critica alla società che mira a ridurci in abbietti consumatori privi di identità, oppure un sogno del protagonista in cui potersi rifugiare in seguito ad una separazione difficile.
La violenza in alcune scene non manca. Il sangue è associato a qualcosa di mortifero, che non lascia speranza e il cui sadismo toglie il respiro.
Il regista ci sta avvisando proprio di questo, rifiutare le emozioni porta al
disfacimento delle relazioni.
Nulla a che fare con l’utilizzo della violenza in “Corpo e anima”, in cui le scene di sangue alludono ad una rinascita. Il pubblico ha notato una connessione anche con un’altro film che ha lasciato il segno: in “Mommy”, l’emozione corre a piede libero, qui invece è tutto imprigionato.
Solo dopo aver vissuto l’esperienza con gli occhi di David, solo dopo aver ascoltato quella dolcissima colonna sonora unita a scene disumane, solo dopo aver sperato di difendersi da tutto quel dolore indicibile, solo al termine della proiezione, l’emozione negli spettatori pretende il suo spazio. Esce, con parole che evocano il bisogno di difendersi da quell’ansia provocata da un mondo così cinico, si apprezzano nuovamente e si tornano a desiderare le sfumature della vita: soprattutto per le innumerevoli complessità che comportano.

Ci siamo salutati con la proiezione di “7 minuti”, film italiano che ha acceso e infiammato il nostro pubblico.
La discussione ha visto come protagonista la necessità di mantenere una posizione etica di fronte alle scelte che la vita ci pone. Quando la risposta pare dettata da un automatismo, quasi opportunistico, in realtà non siamo di fronte a una scelta vera e propria ma ad un obbligo, che ci rende quasi macchine. È ciò che capita alle protagoniste di questa bella storia vera. Operaie di una azienda in crisi, rappresentano con le loro scelte, quelle delle colleghe, quando vengono chiamate a decidere se ridurre le loro pause giornaliere di “soli” 7 minuti per salvare l’azienda: la responsabilità è enorme ed è necessario fermarsi e ragionare, prendersi tempo, quando l’imperativo è quello di “sbrigare la faccenda velocemente”. Sono donne diverse, con storie pesanti alle spalle, che scelgono nonostante tutto di restare umane e non di cedere al disprezzo e all’umiliazione.
Ognuna ha un carattere diverso, bisogni profondi che vengono “sedotti”, o meglio, usati contro di loro, dalla dirigenza spietata. La scelta pare scontata: proprio per questo non bisogna cedere alla “scontatezza” della risposta. Ciò che accade è un cambio quasi improvviso di tendenza, quando le nostre protagoniste cominciano ad uscire dalla “monade” dei propri bisogni minacciati dalla perdita del lavoro e assumono uno sguardo di comunità.
La visione collettiva, il pensiero rivolto all’Altro ne mantiene la dignità fortemente minacciata da una perdita costante dei propri diritti.

In questa edizione abbiamo potuto toccare attraverso storie sempre nuove emozioni forti e palpitanti. Desideri e paure ci hanno accomunato e hanno trovato uno spazio di condivisione.
Ci siamo salutati guardando noi stessi e i nostri vicini con occhi diversi.

Arrivederci alla prossima edizione… nel frattempo Buona Visione!

locandina cenecine 2019

Francesca Carloni