Tutto un altro paio di maniche: dall’immaginare il progetto all’esserne protagonista

 

La serata iniziale del workshop PUNTI DI VISTA. NOI, IL MONDO E IN MEZZO UNA FOTOGRAFIA si è svolta venerdì 11 settembre presso la sede di Officina Arti Audiovisive.

La serata è stata un dialogo-intervista tra i fotografi Cristiano Freschi e Giulio Nori e le terapeute Carolina Gandolfi e Georgia De Biasi, del Ruolo Terapeutico di Parma, con il coinvolgimento del pubblico presente in sala.

I fotografi si sono generosamente offerti attraverso i propri scatti agli sguardi attenti, emozionati e rispettosi dei presenti, per mostrare in opera il modo di lavorare insieme sulle immagini che è alla base di questo progetto.

Di seguito le riflessioni di Cristiano dopo la serata, dopo aver sperimentato in prima persona le possibilità e le risonanze di un approccio alle immagini prima solo immaginato a tavolino.

 

Io non sapevo nulla prima del contenuto della serata. E’ una scelta che abbiamo fatto insieme, noi fotografi e le psicoterapeute, per metterci in gioco in prima persona e  provare così a mostrare dal vivo quello che per noi è il senso del workshop Punti di vista.

Prima della serata e nella sua imminenza ho vissuto sensazioni diverse; innanzitutto, mi viene in mente  il piacere dell’imprevisto, del lasciarsi sorprendere. C’è da dire che la ritenevo probabilmente una situazione  controllata e sul tema mi sento tranquillo, per cui forse è stato possibile sentire questo piacere. Allo stesso tempo, sentivo anche il disequilibrio nel mio rapporto con le terapeute che avrebbero condotto la serata, la sensazione era che loro avessero il controllo, che sapessero la direzione in cui sarebbero andate le cose  e questo mi provocava un certo fastidio, una certa fatica.  Non è facile, né bello da dire! Ma penso abbia a che fare con la fatica di sentire asimmetria tra le nostre due posizioni: quella di chi ha il controllo, e quella di chi si deve in qualche modo affidare come me e Giulio in quel contesto.

Ora, a posteriori, dopo la serata, posso avvicinare tutto questo, sorriderci e parlarne in modo più tranquillo. Alla fine ho vissuto molto bene come è andata, sono stato  orgoglioso di me, il modo di avvicinarmi delle conduttrici nel dialogo è stato rispettoso e  non mi ha dato fastidio; in realtà ero molto tranquillo anche prima rispetto al loro modo di operare, avevo fiducia piena in questo, non avevo il minimo dubbio su di loro, temevo più me stesso.

Un aspetto su cui  invece non mi ero più di tanto soffermato prima erano le possibili domande del pubblico; o meglio, ci avevo pensato ma ritenevo assolutamente improbabile che qualcuno riuscisse a colpire nel segno, come invece è avvenuto! Credo di essere riuscito a stare in quella situazione, e sono molto orgoglioso di questo. Adesso mentre lo dico lo trovo quasi commovente perché davvero per me è un cambio totale di prospettiva rispetto a ciò che ero, alle paure che mi accompagnavano, al letterale terrore nel mettersi in gioco.

E poi, per come io l’ho vissuta, le persone del pubblico nei loro interventi parlavano di sé. Ovviamente poi le domande erano rivolte a me, a noi, e io dovevo rispondere di me. Ma è come se fosse un palleggio tra noi; non l’ho sentita come un’invasione di campo. In quel momento non è che abbia razionalizzato molto questo aspetto, ma ora mi sembra di poter dire che penso che ciascuno parlasse in qualche modo di sé attraverso quello che vedeva nella fotografia, e questo forse mi ha messo al riparo dalla sensazione di un’invasione. Ecco, magari commentavano la mia fotografia dal punto di vista tecnico o “artistico” ma non parlavano di me direttamente.

Mi viene in mente ora che alcune persone hanno sottolineato la “sensibilità” mia nell’affrontare il progetto dei sogni, della sensibilità che ci vuole ad accompagnare una persona nel suo sogno, nella costruzione della fotografia del suo sogno; mi ha fatto molto piacere ma faccio fatica a dire che è una caratteristica che mi appartiene. Mi domando se è adatta.

Io parlerei forse di una capacità mia nell’ ascoltare, nel relazionarmi, ma chissà poi quante cose mi sfuggono, ci sono cose di cui non mi sono accorto subito e che magari ho colto solo un anno dopo ripensandoci. Concretamente, l’altra sera ho parlato dell’atteggiamento di mia mamma nei confronti del suo sogno. (Racconto di un sogno n.1)

Ricordo che è nata la mia idea generale di questo progetto di ritrarre i sogni. Una sera ero a casa sua attorno a Natale e gliene ho parlato e lei mi ha raccontato questo sogno. E da lì abbiamo cominciato a progettare la fotografia che abbiamo realizzato dopo un paio di mesi.

Già  nel raccontarmelo mi sembrava parlasse di qualcun altro, che stesse raccontando una sceneggiatura scritta da un’altra persona. Forse questo ha anche a che fare col fatto che è un sogno antico, un sogno che lei aveva fatto molti e molti anni prima, un sogno che appartiene ad una adolescente, ad una bambina.

E anche nel realizzarlo lei si è prestata come ad un gioco, questa la mia sensazione. Come se fosse attrice in una sceneggiatura di qualcun altro.

Di questo suo atteggiamento io nei due mesi di realizzazione della fotografia non mi sono reso conto, me ne sono reso conto solo a posteriori. Non so come, probabilmente anche attraverso l’esperienza delle realizzazione delle altre fotografie del progetto, dell’ascolto degli altri sogni, o di momenti come quello dell’altra sera di confronto sull’argomento. Nel mentre, invece, io pensavo solamente alla fotografia. Non mi sono domandato come lei la stesse vivendo. Io lì per lì ero concentrato nello scattare una bella fotografia che rappresentasse quello che lei mi aveva trasmesso. Non pensavo: “chissà cosa prova mamma che sta mettendo in scena un sogno che ha fatto quando aveva 12 anni due anni dopo la morte di suo padre”? Sarà mica sensibilità, questa?  A pensarci un sogno di quel tipo è una cosa gigantesca. Ma queste considerazioni sono venute dopo.

E tuttora non so nulla di come lei la veda e la viva, ma se guardo quella fotografia, realizzata peraltro in condizioni non semplicissime (c’era vento abbastanza forte, la sabbia, il fuoco che si spegneva, il dover fare alla svelta..) quello che io noto è l’espressione di mia mamma: lei non ha quell’espressione, o almeno io quell’espressione non so se gliel’ho mai vista. E’ un’espressione così tirata. Probabilmente sarà stata stanca, le braccia protese in avanti per un lungo tempo affaticano le spalle, ci saranno senz’altro motivazioni contingenti al momento ma tutto sommato adesso in questo momento a distanza di tre anni e mezzo lo vedo che mia mamma ha un’espressione sofferente. Ecco, di tutto questo non mi ero accorto: lì per lì io pensavo alle nuvole sullo sfondo, al cielo, al fuoco, al vestito che si gonfia, alla posizione delle sue braccia, allo scattare velocemente perchè il fuoco è durato davvero poco, si è consumato in un attimo, nonostante ci fosse tantissima legna.

Le altre fotografie del progetto sono state molto differenti, perché non conoscevo prima le persone ritratte, la costruzione della fotografia è durata molto di più ed è stato un percorso fatto insieme. Con mia mamma non mi è venuto e non mi verrebbe forse nemmeno adesso di costruirla insieme.

Questo è ovviamente il modo in cui io l’ho vissuto, non so molto di come sia stato per lei. E ho anche un po’ timore nell’affrontare con mia mamma questo discorso direttamente.

In generale non avevo aspettative sulla serata, e non mi sono messo prima nella situazione di pensare a cosa sarebbe potuto succedere. Sicuramente la cosa che mi ha più sorpreso però è la domanda che è arrivata su una mia fotografia da una persona presente nel pubblico: è strano pensare che una persona che non sa nulla di te e che non lo fa certamente apposta vada a centrare così nel segno. Questo mi ha molto colpito. Io non mi ero accorto di non parlare, rispetto alla mia fotografia, di una presenza che c’era. (2 minuti e 23 secondi ) Perché per me non c’è, sostanzialmente. Per me in quella fotografia c’è Leda, mia figlia, a 2 minuti e 23 secondi di vita, e ci siamo solo io e lei, per me,  in quel momento, in quello sguardo. La persona del pubblico ha sottolineato che c’è anche la madre, ha evidenziato le forme del suo corpo . Non è che fosse per me totalmente assente, io questo lo sottolineo: rispetto alla presenza del corpo, a me viene alla mente il seno e il neo, io so benissimo che c’è il neo e non ho davanti in questo momento  la fotografia. Quindi non è che quella presenza non  ci fosse, ma per me è il contorno. Dopo quella serata ho messo in qualche modo dentro quella considerazione e probabilmente da adesso in poi sarà anche più difficile non vederla. Ecco, questa è la cosa per me più interessante: che, attraverso questo scambio, una persona presente nell’immagine ma per me invisibile, forse, e dico forse, diventa da ora più presente.

E’ stato anche molto interessante vedere un po’ più dall’esterno quello che è accaduto in relazione ad una fotografia di Giulio: il fatto che, senza sapere nulla della fotografia, delle circostanze, dei significati e dei luoghi in cui è stata scattata, a Georgia sia venuta in mente nel vederla quella poesia che parla delle “Le buone  cose di pessimo gusto” (cit. L’amica di nonna Speranza – Gozzano)  che tanto abbiamo poi scoperto avere a che fare nel suo contenuto con quanto Giulio ci ha raccontato. E’ una fotografia che di per sé della zia non dice nulla, mentre nella serata ne è emerso un sentire comune molto forte.

E ora? Ora non ci resta che scoprire dove il workshop condurrà i partecipanti, ma anche noi conduttori. E io, dopo questa serata, sono ancor più curioso di scoprirlo!

Cristiano Freschi, fotografo.