Parole e silenzi. “Squilla il telefono Enea, è Antigone!” A cura di Francesca Carloni

Dialoghi tra Antigone ed Enea

L’Italia vede decimata la generazione anziana, punto di riferimento per i giovani e per gli affetti”.

Queste sono state le parole con cui ha voluto iniziare i suoi discorsi il nostro Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Parole dette con commozione che non possono non far risuonare dentro tutti noi il cordoglio e il dolore per le numerosissime perdite che le nostre comunità hanno dovuto affrontare.

Affrontare: come sono state affrontate? È stato veramente possibile guardare in faccia il dolore causato dalla perdita improvvisa, resa ancora più dolorosa, dalla mancanza del saluto e dell’abbraccio della comunità attraverso i rituali funerari?

Il lutto di chi ha dovuto ridare un senso nella propria vita, quando il senso era impossibile da trovare, negli ultimi tre lunghissimi mesi, ha combattuto con l’impatto deflagrante che la gestione dell’emergenza Covid ha reso necessaria.

Non solo non è stato possibile accompagnare il famigliare al fine vita, ma in molti casi, è stato impossibile poterne toccare la mano in un ultimo saluto, vederne il corpo. Il lutto da solo rappresenta una perdita di senso, come si può chiedere alle persone che sono state colpite da questo dolore, quindi, in questa fase di riavvicinamento ad una quotidianità, di ritornare alla normalità?

Di che normalità stiamo parlando quando, all’interno di intere famiglie, la disposizione delle sedie attorno al tavolo è rimasta quella di gennaio, quando quelle sedie sono vuote?

Così immagino discorsi che due figure della mitologia greca Antigone ed Enea, ai giorni nostri, possono fare in questa fase. Immagino come le Antigone e gli Enea di oggi possono essersi sentiti di fronte all’impossibilità di portare avanti il loro destino.

Antigone disobbedisce allo zio, re di Tebe Creonte decidendo di seppellire Polinice, il fratello, al termine della battaglia.
La mancata sepoltura dei morti nella cultura greca è un atto fortemente oltraggioso e deplorevole, agli occhi degli dei e degli uomini. La sepoltura del corpo del fratello per Antigone è un atto necessario, che pagherà con una morte anch’essa terribile.

Enea d’altro canto, è colui che, durante il rogo di Troia, ormai sopraffatta dall’ingresso degli Achei dentro le mura, decide di scappare quando tutto è perduto, decidendo però di portarsi sulle spalle il vecchio padre Anchise e tenendo per mano il figlioletto Ascanio.

Entrambi gli atti, la sepoltura rituale e la conservazione della memoria dell’anziano, sono atti che fondano la civiltà.

Antigone sceglie un atto civile e di rispetto per il corpo e la memoria “di chi è stato e non è più”. Enea, ferito, ansimante, sceglie di portare passato sulle spalle, per mano il futuro, senza i quali non sarebbe stato possibile fondare la civiltà sul litorale laziale, di cui poi conosciamo la storia.

La relazione è la Cura nella civiltà. 

È cura avere premura dei corpi e della memoria di chi non c’è più.

È cura, assumersi la responsabilità della salvezza della memoria storica e anche emotiva degli eventi passati, fondamentali per una guida per il presente con lo sguardo volto al futuro.

Negli ultimi mesi i nostri moderni Antigone ed Enea hanno vissuto momenti di sconforto profondi.

L’impossibilità di poter accompagnare i propri cari in un rito consolidato, come quello del funerale ha ostacolato il profondo bisogno del riconoscimento comunitario dell’avvenuto passaggio, lasciando i famigliari in una dimensione di incredulità incertezza e di profondo dolore che va a minare il senso di identità personale e famigliare.

Anche gli Enea sono stati numerosi: penso ad esempio, a tutte le figure sanitarie che hanno dovuto fronteggiare un nemico che ha abbattuto tutte le porte, dal quale all’inizio eravamo totalmente impreparati sorpresi e indifesi. Il virus, come il cavallo di Troia, è entrato a far parte degli organismi e nelle vite di tutti noi in maniera subdola e inaspettata.

La sorpresa, l’impreparazione e mancanza iniziale di dpi hanno fatto il resto.
La scelta è stata quella di combattere contro questo nemico, lasciando meno corpi possibili alla sua mercè.
Ad un costo altissimo.

Le nostre professioni sanitarie hanno portato sulle spalle quanti più anziani possibili: ognuno rappresentava l’Anchise di qualcun altro e ogni Anchise rappresentava la memoria storica di una famiglia, essenziale nel trasmettere antichi saperi, valori vissuti, tradizioni, forme diverse di gestione di spazi e di percezione dei tempi, rappresentavano il valore degli affetti teneri e dei ricordi nei quali rifugiarsi nei momenti cupi.

In moltissimi casi, poter salvare “Anchise dal rogo di Troia”, e accompagnare il famigliare deceduto, il Polinice, poterlo salutare nell’abbraccio consolatorio di chi rimane non è stato possibile.

Enea e Antigone hanno fallito nel loro intento.
Non per causa loro, certamente.
Come poter ripartire allora? Come affrontare il senso di colpa per la mancata telefonata, il mancato saluto da parte di una nipote, un figlio o il non avercela fatta a portarne un altro sulle spalle e averlo lasciato andare?

Antigone ed Enea sono profondamente scossi, sgomenti.
Fanno fatica a riprendere una quotidianità e una normalità tanto sbandierata.
Sentono sulla pelle, dentro la pancia, il solco lasciato dal virus, sentono profondamente dentro la carne la presenza di un prima e di un dopo, che non si concilia ancora in uno sguardo che permetta di andare oltre.

Le due anime si parlano. Si confrontano. Hanno bisogno di dare parole a ciò che gira dentro casse toraciche.
Sono vivi. Non sanno ancora spiegarsi come hanno fatto a sopravvivere entrambi, cosa lì ha condotti fino a qui.
A volte, prima di sera, si chiamano. Si raccontano: ricordano di aver sentito parlare di quel prete temerario che per far sentire la vicinanza del defunto ai parenti, ha appoggiato il cellulare sul corpo mentre insieme recitavano la preghiera al telefono, o di quella infermiera che lasciava il proprio telefono alla persona ricoverata per fare delle videochiamate ai famigliari a casa.

Si commuovono.
Parlare di queste cose li aiuta.
Poi arriva la sera, con tutti i suoi dubbi e i fantasmi.

Si chiamano al telefono, si confrontano, si narrano: si sentono in colpa per essere qui, si chiedono perché a loro è stato concesso un destino diverso. Vogliono capire però cosa impedisce loro di colmare quel vuoto doloroso che rimane dentro.
In quel vuoto sentono che c’è molto: non è un vuoto come lo intendiamo di solito, ma è un vuoto “pieno e densissimo”, che reclama il suo spazio e grida una solitudine e un dolore con parole incomprensibili.
A volte ridono, riescono a pensare ad altro.
Spesso però Enea racconta di quanto sia indelebile il ricordo dei primi periodi, quando pensava solo di andare a lavorare e invece si è reso conto che non sarebbe stata una giornata come le altre: quando ha capito, che nonostante gli sforzi e le apparecchiature mediche messe in campo, solo lo sguardo muto attraverso la mascherina poteva accompagnare alcuni.
Lo sguardo della cura senza guarigione.
Con la morte aveva già avuto a che fare, ma non si era mai fermato a pensare quanto fossero potenti e necessari i volti che si parlano chi cura e chi è curato.

Allo stesso modo Antigone, parla di tante cose, cerca di sorridere, ma la compagnia dei propri cari che non ci sono più, rimane costante e terribilmente angosciosa.
Ripensano insieme alle cose che avrebbero dovuto fare, alle cose che avrebbero voluto dire, come se quelle parole non potessero essere più consegnate al destinatario.
Dovere…Volere… non c’è più l’Altro.
Rimangono verbi in un tempo infinito: sospesi come chi li pronuncia.
La ferita è aperta… la cicatrice è ancora lontana.

La tragedia di entrambi fa parte di una tragedia collettiva.
Mal comune, mezzo gaudio”, dicono: chissà se anche nell’antica Grecia usavano questo modo di dire così odioso.
Tuttavia pensare il proprio dolore come un dolore che accomuna storicamente anche altri, in una dimensione di isolamento relazionale, in realtà può essere una piccola minima forma di consolazione: il senso di appartenenza alla comunità numerosa di chi non ha potuto stringersi intorno al defunto è più potente di quanto si creda.

È su questo che bisogna pensare una forma di recupero della dimensione comunitaria del lutto.
Durante i mesi di isolamento, lo sgomento provato il seguito alla perdita incomprensibile dei propri cari o di chi ci proponeva di salvare, rischia di espropriare intere famiglie dalla possibilità di elaborare il lutto.

Antigone ed Enea, così come molti di noi, hanno perso non solo i propri cari, non sono riusciti a salvarli, ma stanno rischiando di non riuscire a recuperare il loro ricordo dentro di Sè.

Tutto è congelato.
Oggi più che mai abbiamo bisogno di luoghi e spazi per poter dar voce a pensieri e a emozioni come Enea e Antigone: il destino non ha risparmiato neanche loro.

Oggi più che mai esiste il profondo bisogno di recuperare il momento del cordoglio.
A fronte della perdita incolmabile di una persona cara e di tutto ciò che per noi rappresentava, dobbiamo però recuperare le narrazioni, ricostruire racconti per poter “riseminare le memorie” e con esse gli affetti, per poter costruire un futuro.

Nella morte non perdiamo solo l’Altro, ma anche l’Altro che è dentro di noi, ciò che per noi rappresentava quella persona: un pezzo di noi stessi. Poter usufruire di uno spazio e di un tempo per poter recuperare quel pezzo di noi, è elemento fondamentale per poter elaborare il lutto.

Il processo è faticoso, ma necessario per non sviluppare ulteriori forme di sofferenza emotiva e psichica.
Il legame è cambiato, non c’è più un corpo a fare da mediatore. Perciò è importante fare come Enea e Antigone: parlare, narrare, confrontarsi, ricordare episodi piacevoli con la persona amata, commuoversi, in un luogo sicuro.
Permettere di investire ricordi ed emozioni in un legame continuato fa sì che il dolore distruttivo possa trasformarsi in un dolore nostalgico, perciò pensabile e generativo, che possa aprire una finestra su un campo di vita nuovo, ristrutturato e che tenga conto delle assenze.

Il lutto è un processo di cambiamento che richiede un adattamento doloroso e che coinvolge necessariamente il vissuto relazionale ed una elaborazione emotiva e cognitiva nei confronti del grande tabù della morte.
La mancata elaborazione del lutto ci costringe in una dimensione cristallizzata in un dolore che rende fragili e vulnerabili.

La possibilità di trovare gradualmente le “parole per dire” il proprio dolore per la perdita di un famigliare o il dolore per il fallimento del proposito salvifico, necessita di una dimensione relazionale che possa prendersi cura delle persone e dei loro vissuti, all’insegna dell’accoglienza e del rispetto.

È nella ripresa della dimensione relazionale, che ci permettiamo di recuperare il legame e di prendercene cura individualmente.
In questi mesi abbiamo dovuto confrontarci con almeno tre grandi sfide.

La prima è quella di non morire e di attuare quindi tutte le misure necessarie per la nostra protezione e per chi ci sta vicino.

La seconda è quella di recuperare una dimensione di comunità nuova e che possa recuperare la dimensione relazionale e di “civiltà” persa durante l’isolamento.

La terza è sempre stata presente, ma oggi più che mai richiede l’attenzione che si merita. È la necessità e la responsabilità personale a qualsiasi età di prendersi cura di noi stessi.

Come spesso ci ripetiamo e sentiamo ripetere da Antigone e Ettore: Veniamo al mondo con il compito di vivere bene e l’enorme quantità di male che possiamo incontrare dentro e fuori di noi non deve intaccare questo dovere.” (Cit. Erba, Di Prima, Serra,Semola.)

Francesca Carloni